La «cattedrale di metallo e vetro» dove si lavora come 50 anni fa
Antonella De Palma da IL MANIFESTO 15 ago 2012
L'Ilva
di Taranto ha un'incredibile estensione di 15 milioni di metri
quadrati; ogni anno sui suoi moli sbarcano 20 milioni di tonnellate di
minerali, fossili e coke, che vengono accumulati nei parchi a cielo
aperto per poi essere utilizzati per la produzione della ghisa e
dell'acciaio. La capacità produttiva dello stabilimento è di circa 10
milioni di tonnellate annue di acciaio.
Quando iniziò a produrre,
agli inizi degli anni sessanta, la «cattedrale immensa di metallo e di
vetro» che avrebbe reso moderni gli uomini che «venivano dai campi, dai
pascoli e dalla rassegnazione», come la definì Dino Buzzati, disponeva
delle migliori tecnologie produttive dell'epoca. Da allora sono passati
50 anni, nei quali l'Ilva ha continuato a sfornare acciaio nello stesso
modo: la ghisa, prodotta attraverso il processo
cokeria-agglomerato-altoforno passa poi ai convertitori dell'acciaieria e
via via alle altre lavorazioni. È vero che sono state adottate
soluzioni che hanno permesso un miglioramento nel campo della produzione
(ormai fortemente automatizzata e informatizzata) e del controllo delle
emissioni nocive (ogni volta tamponando il danno già fatto che man mano
è emerso), ma il ciclo produttivo non ha subito modifiche sostanziali.
L'azienda,
sia durante la gestione pubblica (quando si chiamava Italsider) sia
dopo la privatizzazione (dal 1995 ad oggi), ha fatto poco o niente per
la ricerca e l'applicazione di nuove tecnologie produttive che potessero
risolvere davvero il problema ambientale, che non è certo questione
degli ultimi mesi, come potrebbe sembrare dalle sbalordite reazioni di
molti amministratori, politici e sindacalisti ai fatti più recenti. Già
nel 1964 il sindaco di Taranto denunciò il fatto che, a fronte delle
richieste di informazioni avanzate ai dirigenti aziendali rispetto alle
misure che si intendevano adottare per salvaguardare lavoratori e
cittadini dai rischi di inquinamento atmosferico, delle acque e «da
altri processi gravemente preoccupanti per la pubblica salute», quelli
si trincerarono dietro un segreto che, disse il sindaco, «se non è
quello militare quasi lo raggiunge».
Da oltre dieci anni nei paesi
emergenti nella produzione dell'acciaio (Cina, Corea del Sud, India,
Brasile, Sud Africa), sono in uso tecniche di produzione alternative al
processo d'altoforno. Tra queste, in particolare, la riduzione durante
la fusione del minerale di ferro (Smelting Reduction) può essere
considerata la vera alternativa all'altoforno.
Questa tecnologia
utilizza carbon fossile al posto del coke e minerale di ferro grezzo.
Non sono quindi più necessari nel ciclo produttivo le cokerie e
l'impianto di agglomerazione del ferro, cioè gli impianti più
inquinanti. Senza di essi non ci sono più emissioni di diossine,
benzene, idrocarburi policiclici aromatici, polvere di coke ed altre
vengono sensibilmente abbattute sia gassose, come CO2, ossidi di azoto,
anidride solforosa, polveri, sia fluide, come ammoniaca, fenoli, solfuro
e cianuro.
Altri vantaggi della riduzione durante la fusione sono
un significativo contenimento dei costi operativi e un notevole
risparmio energetico, in quanto il gas prodotto dalla gassificazione del
carbone rientra in ciclo per alimentare lo stesso impianto; è anche un
ottimo gas di esportazione che può essere impiegato per diversi altri
scopi, dalla produzione di energia elettrica all'uso come combustibile
in sostituzione dei gas naturali.
L'unico processo commerciale
attualmente in funzione è il Corex, realizzato dalla Siemens, a cui si è
poi affiancato il Finex, una evoluzione del Corex che può impiegare
anche minerale fine e polvere di carbone. Altri sono in fase di avanzata
sperimentazione.
Queste tecnologie sono state finora utilizzate in
impianti di dimensioni più ridotte rispetto a quello tarantino.
Attualmente ogni modulo Corex può produrre al massimo 2 milioni di
tonnellate annue, (un modulo di capacità maggiore è in fase di
sperimentazione) ma, almeno apparentemente, nulla vieta di accrescere il
numero dei moduli fino a raggiungere la capacità produttiva necessaria
per il sito di Taranto.
Proprio la possibilità di moltiplicare i
moduli renderebbe la sua applicazione all'impianto tarantino ancora più
fattibile, in quanto la sostituzione degli altiforni potrebbe essere
effettuata gradualmente permettendo quindi la continuità della
produzione.
Stupisce il silenzio che circonda queste tecnologie, che
pure sono state indicate fra le migliori disponibili per la produzione
dell'acciaio dalla Commissione europea.
Silenzio anche da parte degli amministratori locali.
Nel
mondo sindacale Gianni Alioti, responsabile internazionale della
Fim-Cisl e coordinatore dell'ufficio salute-ambiente-sicurezza è stato
l'unico a occuparsi significativamente di questi processi produttivi. Un
suo documento del 2008, centrato proprio sull'analisi della situazione
tarantina, ha dato lo spunto ad un gruppo di lavoro formatosi lo scorso
anno a Taranto che ha poi approfondito l'argomento, reperendo altro
materiale informativo prodotto da tecnici di varia provenienza e
nazionalità, da cui emerge la possibilità di un cambiamento radicale e
di lungo respiro per la città.
Bisogna che oggi si apra un concreto
confronto sulla riconversione tecnologica del ciclo produttivo
dell'acciaio. È necessario studiare anche tempi, modi e costi
dell'operazione e, una volta riscontratane la fattibilità, invitare con
fermezza l'azienda ad adottare questa linea di intervento, risolutiva
per i problemi della città.
È importante anche iniziare a discutere
sulla necessità di ridurre il carico produttivo dell'Ilva di Taranto,
troppo gravoso per il territorio che deve sopportarne le conseguenze
disastrose sull'ambiente e sulla salute. Già oggi lo stabilimento
produce meno della sua capacità (7 milioni circa di tonnellate annue) e
ciononostante il gruppo Riva continua ad essere al decimo posto nella
produzione mondiale dell'acciaio.
Bisogna anche dire che, dei 42
impianti produttivi di proprietà Riva sparsi nel mondo, Taranto è
l'unico che utilizzi ancora il processo d'altoforno. Negli altri siti di
proprietà del gruppo, tutti di dimensioni molto minori, sono in uso i
forni ad arco elettrico, che hanno un impatto ridottissimo sull'ambiente
e sono ormai, in Italia, la principale modalità di produzione di
acciaio, in aziende che raramente superano i due milioni di tonnellate
di produzione annua.
È su questo impegnativo progetto di
riconversione eco-compatibile che vorremmo vedere impegnati insieme
amministratori, sindacati, lavoratori, cittadini e Ilva, senza dover
ancora una volta veder minacciosamente sbandierato lo spauracchio del
ricatto occupazionale.
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